Al via la stagione 2017/2018 che vede Pietro Romano al timone di nuove, attesissime esperienze artistiche, orientate, naturalmente, allo sviluppo del progetto di conservazione, salvaguardia e diffusione della cultura vernacolare più antica della Storia, nel binomio inscindibile col Teatro, mantenendo la propria unicità e riuscendo straordinariamente ancora a sorprendere.
Dopo le indiscutibilmente fortunate pièces in cui la strategia traspositiva dei classici (Goldoni, Molière, fino all’eccezionale successo di Miseria e Nobiltà di Scarpetta, in scena per ben due tranches di repliche nella scorsa stagione), ormai collaudata e vincente, ha entusiasmato il Pubblico fino all’assoluto sold out, si apre la Nuova Stagione con STORIA DI BORGATA.
Romano, che adatta, dirige ed interpreta, l’Opera scritta originariamente da Gianni Quinto, sfida i requisiti tradizionali della Commedia, aprendo il sipario sull’amaro tema della Seconda Guerra Mondiale, in una Roma ferita dalla miseria, dalla questione politica nella fattispecie di valenza internazionale, dall’umiliazione che la drammatica circostanza non risparmia all’intero genere umano. Le sue corde, tuttavia, non si smentiscono. La romanità, con tutta la propria capacità d’ironia, in cui l’arte del canzonare e del canzonarsi esorcizzano, addirittura, la difficoltà storica, domina prepotentemente la scena, ancora una volta.
I personaggi che fanno da corolla, incarnano, esprimono ed esaltano – insieme a Checco, il protagonista – una realtà che tutto lascerebbe immaginare fuorché l’ilarità: eppure Romano stupisce di nuovo, con l’eleganza di un livello artistico che ormai gli fa da scettro, consegnando alla storia la grazia della leggerezza, in intrighi, intrecci, accadimenti perfettamente incastonati nel momento indicato, in cui l’estro introspettivo si fa elemento essenziale della Commedia, fino alla sconfitta del tempo che nell’ambientazione, nella scelta stilistica dei costumi, nella dinamica contenutistica e soprattutto nella magistrale esposizione dialettale, si fregia d’eterna contemporaneità.
Così la finestra della scena si apre su Testaccio, storico rione romano, che tutto dà di sé, lasciando ascoltare la propria lingua, esalare i propri odori – magia del teatro – osservare la propria condizione, cristallizzata a quell’infinito, drammatico fino alla tenerezza, 1944. La condizione sociale di Checco e Nina, binomio non necessariamente casuale, di Ghituccia, di Pecoretti, di Alfredo e Laura, confeziona l’immagine storica di una realtà provata, contro la quale vince l’ironia di una romanità che sfida col proprio umorismo i canoni dei fatti, meritando che il colpo di scena mozzi il fiato.
Romano diverte sempre e conferma l’istrionica capacità di porre l’impegno d’un tema che scotta tutt’ora col garbo godibile di una tradizione artistica, quella del teatro dialettale romanesco, di cui rimane indiscusso ed illustre maestro.
Foto di Roberto Passeri e Paolo Stucchi
© Pietro Romano